A Bari Vecchia il sequestro delle orecchiette non tracciate, avvenuto a novembre scorso da parte della guardia di finanza ai danni di un ristoratore locale, scatena polemiche e finisce in prima pagina sul New York Times: a interessarsi alla questione è Jason Horowitz, corrispondente del noto quotidiano americano, che ha girato i vicoli della città per raccontare quella che è stata chiamata "La guerra delle orecchiette".
Pasta illegale a Bari Vecchia. Un reportage del News York Times di ieri titola: “Call it a crime of pasta”, chiamatelo crimine di pasta. Ed è davvero così, perché il noto quotidiano americano ha ripreso un caso successo da poco in quel di Bari, dove un ristoratore si è visto sequestrare un "carico" di orecchiette artigianali, perché non tracciate. Fin qui tutto normale, se non fosse che il caso è arrivato sul NYT, accendendo i riflettori su quella che a Bari è chiamata "La guerra delle orecchiette".
Un caso di cronaca locale diventato internazionale: a firmare il reportage del NYT è il corrispondente Jason Horowitz, che ha girato i vicoli del bellissimo centro storico di Bari per capire cosa stava succedendo, intervistando le massaie dedite alla produzione di orecchiette. L'articolo di Horowitz cerca di raccontare la situazione di una città che, fino a qualche anno fa, era purtroppo nota per rapine e furti: intervista gli abitanti di bari e raccoglie anche la testimonianza del Sindaco. Ma questa è anche una città che ha saputo rivalutarsi, a partire proprio dai prodotti gastronomici e dalle tradizioni locali. E sono proprio le orecchiette ad aver conquistato i turisti, cosa che ha permesso a Bari di entrare nella top ten delle migliori destinazioni d'Europa per Lonely Planet (ma anche di essere la location di uno spot di Dolce&Gabbana e meta di turisti vip) e soprattutto quel modo del tutto tradizionale di produrle che le espone alla vista dei turisti.
Jason Horowitz nel suo reportage racconta delle norme amministrative che rischiano di uccidere la tradizione delle pastaie dell'Arco Basso: queste sono da tempo un richiamo per i turisti, proprio per la loro usanza di lavorare fuori casa, sedute fra le vie del Borgo antico, dove si espongono le orecchiette. Ma tutto questo potrebbe finire: “Le donne non guadagnano molto, e temono di dover indossare cuffiette, fare ricevute e pagare le tasse”. Qualcosa che in un paese qualsiasi del mondo sarebbe del tutto normale, ma non qui da noi: è infatti l'artigianalità a rendere così speciale i nostri prodotti. Un'artigianalità che non dovrebbe essere contrapposta alle norme di igiene, cosa che di fatto avviene spesso.
Il caso di Bari Vecchia è simile a molti altri casi in Italia: ci sono zone dove la produzione artigianale non segue le norme amministrative proprio perché quelle norme potrebbero ridurre la qualità del prodotto in sé. E ci sono altri territori dove questo avviene "per partito preso", senza nessuna mediazione da parte delle istituzioni. Di chi è allora la responsabilità di tutelare la tradizione? E cosa vuol dire esattamente tutelare: evitare di standardizzare le pratiche culinarie, o assicurare il rispetto degli standard igienici? Per noi, queste due cose non dovrebbero essere contrapposte e tocca proprio alle istituzioni trovare quella "via di mezzo" che tuteli salute e tradizione allo stesso tempo.
Vi lasciamo con le parole del collega americano, che ha affidato la conclusione del suo reportage ai baresi: è proprio fra queste righe che si evince la grande confusione che regna su questi temi. Fra le donne, infatti, c'è chi dice che “le tasse sono giuste”, altre donne che ricordano di aver cominciato a fare orecchiette dall'età di sei anni, chi racconta come fossero un tempo un prerequisito per il matrimonio. A ogni modo, questa arte dovrebbe essere custodita e tutelata: “Dobbiamo trasmettere questi valori alle prossime generazioni, dovrebbero aiutarci a tramandare questa tradizione, non sterminarla" è il commento finale di Nunzia Caputo, una delle donne delle orecchiette intervistate da Horowitz "dovrebbe essere insegnata a scuola. Ci sono bambini che parlano due, tre lingue, ma che non sanno fare questo”.