Uno dei dolci simbolo della pasticceria napoletana, in realtà, non è di Napoli. È la strana storia del babà, nato in Francia grazie a un re polacco e portato sul golfo da cuochi spediti a Parigi per studiare la cucina locale.
Chi poteva mai lontanamente immaginare, esclusi gli addetti ai lavori, che uno dei simboli di Napoli, in realtà, non è napoletano, ma arrivato all’ombra del Vesuvio chiuso in un ideale “pacco da su” proveniente dalla Francia? È la curiosa storia del babà, oggi istituzione della gastronomia e cultura pop partenopea.
La tradizione dolciaria napoletana è strettamente legata alla vita conventuale delle suore campane, ideatrici nei secoli passati di numerosi manicaretti zuccherati tutt’oggi tra i best seller della Napoli gastronomica.
La pastiera trova i natali tra le mura della chiesa di San Gregorio Armeno, nel cuore della città, la sfogliatella Santa Rosa venne ideata da monache di clausura di un omonimo convento della Costiera Amalfitana. Lo stesso sanguinaccio, così come i mustacciuoli, furono ideati dalle suore del convento di Santa Chiara. Sono solo alcuni esempi di come la storia di molti dolci napoletani sia intrecciata con quella di vari luoghi sacri disseminati per la città o la Regione.
C’è però una preparazione, nell’immaginario collettivo altrettanto se non più iconica e rappresentativa della città, che non solo non è di origine napoletana, non solo non è nata in Campania, ma addirittura arriva (indirettamente) dalla Polonia, passando per la Francia. Incredibile ma vero, si tratta del babà. First reaction, shock!
La sua paternità, per certi versi, è altrettanto reale quanto quella degli altri dolci napoletani. Solamente che per questi ultimi si intende il legame con il regno dei cieli, più terreno invece per il manicaretto al rum. Tutto si deve a Stanislao Lesczynski, re di Polonia (ella prima parte del 1700) che l’avrebbe inventato, e guarda un po’, per sbaglio. Un prodotto nato per caso e importato insomma, oggi simbolo della pasticceria e della cultura popolare napoletana.
Ma come è arrivato il babà dall’ombra della Torre Eiffel a quella, ben più ampia, del Vesuvio?
“Tu es un babà”, letta in francese non ha certo lo stesso appeal, lo stesso effetto, di “tu si nu babbà” (con la b rigorosamente raddoppiata). Per non parlare poi dell’eventuale versione polacca “jesteś babą”. No, manca davvero di quel quid in più che rende questa formuletta declinabile, affascinante e significativa solamente in lingua partenopea.
Eppure, in un mix di storia e mito, dobbiamo ringraziare il già citato re Slanislao per poter godere, oggi, di un dolce così ghiotto e amato. Più si torna indietro nel tempo, e qui la nostra Delorean deve percorrere circa 3 secoli, più i fatti reali però si mescolano con la leggenda. Cerchiamo di fare ordine.
Non ci è dato sapere con sicurezza se effettivamente questo dolce nacque per una distrazione. Quel che è certo, però, è che il babà sulla carta d’identità, sotto la voce luogo di nascita, non vede comparire nessuna viuzza o pasticceria napoletana. Va detto, a onor del vero, come pur essendo prima nato grazie a un re polacco e poi cresciuto in Francia, è a Napoli che ha trovato il perfezionamento che lo rende la specialità che è oggi. La cittadinanza napoletana, quindi, è stata guadagnata a pieno diritto sul campo.
Leggenda alla mano sembra che per puro errore, nella prima metà del 1700, re Stanislao al tempo in esilio nella Lorena, Nord della Francia, rovesciò del rum su un dolce secco polacco, chiamato kugelopf, bagnandolo e ammorbidendolo con il liquore. Il connubio riuscì a nobilitarlo nel gusto, e fu amore al primo morso.
Ora, a questo punto serviva battezzare l'improvvisa e inattesa specialità. Pare che il re senza trono fosse un fan del racconto di Alì Babà e i quaranta ladroni, e al protagonista decise di dedicare il nuovo dolce. Altre versioni però rimandano a qualcosa di più affettivo: Slanislao ritenne che il manicaretto, per la sua morbidezza, potesse essere adatto anche alla nonna (in polacco babcia), rimasta con ben pochi denti. Dall'assonanza con la parola il nome della nuova preparazione.
Quanto ci sia di vero o di leggendario in tutto ciò non è dato saperlo. Quel che sappiamo però è il percorso intrapreso dal babà dalla Francia per arrivare sino a Napoli. Tutto grazie a cuochi partenopei spediti a Parigi durante il regno dei Borbone per apprendere le tecniche dell’influente cucina transalpina.
Si dà il caso che nella Capitale francese il babà verso la metà del 1700 divenne un dolce diffusissimo, portato a Versailles dalla figlia di Stanislao, che sposò Re Luigi XV. Tutt’oggi Storher, la più antica pasticceria parigina fondata nel 1730, propone ai suoi clienti questa ormai storica ricetta, e pare che ai francesi piaccia con abbondante uso di rum.
Come si intuisce siamo molto, molto lontani ancora da Napoli. Come ha fatto il babà a percorrere gli oltre 1300 chilometri che separano le due città? Grazie ai già citati cuochi partenopei in un Erasmus ante litteram, praticamente.
In quel periodo la cucina francese e quella napoletana stavano iniziando a mescolarsi proprio per volontà dei Borbone, con i nobili ascendenti mangerecci parigini che cominciarono a influenzare la gastronomia vesuviana, ritenuta dai reali fin troppo semplice e popolare.
Come detto, per sprovincializzare la cucina di Napoli i regnanti inviarono in Francia alcuni loro cuochi di corte per apprendere oltralpe tecniche e preparazioni locali. Evidentemente molti di questi cuochi furono così stregati dal babà da decidere di riproporlo a Napoli, ficcandolo prima del loro ritorno in patria in un ideale e idealizzato “pacco da su” dove erano stati chiusi anche il gateaux (divenuto poi gattò di patate) e il sortout (il sartù di riso).
A Napoli queste ricette sono state adattate alla cultura gastronomica locale, e il babà nel corso dei decenni è diventato simbolo della città sul golfo. Simbolo riconosciuto e riconoscibile tutt’oggi, tra i must incondizionati da provare per chi visita Napoli.