Tra i dilemmi gastro linguistici più irrisolti (e forse irrisolvibili) che attanagliano l'Italia c'è quello che ci porta direttamente in Sicilia. L'isola divisa in due da altrettante fazioni: quella a sostegno dell'arancino e quella che pende per l'arancina. Come si chiama il tipico timballo regionale e perché esiste una questione così annosa? Proviamo a fare chiarezza con due chef locali; Gioacchino Sensale e Rosario Umbriaco. Ma abbiamo anche scomodato l'Accademia della Crusca.
Si dice arancino o arancina? Tra le questioni di stampo gastro-linguistiche più irrisolte e controverse nel nostro Paese, tra i dubbi che affliggono gran parte dei turisti in vacanza in Sicilia ma anche i puristi dell'italiano. Tra le domande maggiormente aperte che mettono in contrapposizione, non solo a tavola, due città come Palermo e Catania e più in generale due zone dell'isola così vicine geograficamente ma così divise sotto l’aspetto dialettale. In particolar modo su questa faccenda.
Un dilemma annoso che è diventato una vera questione più o meno irrisolta e irrisolvibile (ci ha provato anche l’Accademia della Crusca), simbolo dell’orgoglio patriottico, linguistico e gastronomico delle città di riferimento. In questo articolo, sappiatelo, non risolveremo questo problema (anche perché, capirete poi, è impossibile ufficializzare un termine a dispetto di un altro). Proveremo, però, a darvi delle indicazioni utili, quantomeno, per farvi un’idea più precisa di una questione che pare affondare le sue radici a oltre 1000 anni fa, al tempo della dominazione araba in Sicilia.
Da parlare, insomma, ce ne è e se siete curiosi venite con noi in un nostro viaggio nel tempo, scavando nella storia e nelle tradizioni sicule, che divide idealmente in due l’isola. Al termine di questo excursus in cui saremo accompagnati anche da due chef siciliani (colleghi e amici, che non hanno mancato di lanciarsi qualche frecciatina divertente), poi, vi farete una vostra opinione più precisa sulla differenziazione tra fimmina e masculo, e sul perché probabilmente questa diatriba non avrà mai un esito. Scopriremo inoltre perché l'Accademia della Crusca ammette entrambe le varianti, andando con loro anche oltre le fredde questioni meramente linguistiche e grammaticali.
Anche se la stragrande maggioranza di voi lo saprà, è bene partire specificando che cos'è questo manicaretto. Mettete una sera a passeggiare per le vie di una città siciliana, un attacco di fame improvvisa al quale rispondere in modo veloce e con un qualcosa di sostanzioso. Esiste soluzione migliore dell'arancino/a? Un timballo di riso impanato e fritto, ripieno solitamente di ragù, piselli e caciocavallo, ma declinabile in più versioni, tipica espressione dello street food locale che viene proposta da bar, ristoranti, pasticcerie e rosticcerie senza limiti di orario e senza vincoli di stagionalità.
Impossibile quindi non trovarlo, e come ogni cibo da strada che si rispetti può essere gustato sia camminando che concedendosi una pausa al tavolo. Data la sua grandezza e abbondanza (tante le varianti con diversi ripieni) per saziarvi potrebbero bastarne anche un paio.
Si tratta, inoltre, di una ricetta che può essere proposta in due differenti forme: nella Sicilia settentrionale ha il classico aspetto rotondo che ricorda, anche per colore, un'arancia. A Catania e dintorni invece viene realizzata più conica, narrano alcuni in onore del vicino Etna. L'importante, per entrambe le "fazioni", è capire la differenza tra l'arancino/a e il supplì, tipico invece della cucina romana, dalla forma allungata, di grandezza minore e tradizionalmente realizzato solo con riso al pomodoro e mozzarella come farcitura.
Alla base di questa diatriba gastronomica risiede, sostanzialmente, una differenziazione tra dialetto siciliano e lingua italiana. In buona parte della trinacria infatti con il termine arancio, utilizzato nell'italiano standard per indicare l’albero, si identifica anche il frutto (in dialetto aranciu, e tenetevelo bene a mente), e da qui l'usanza nella parte orientale della Sicilia di chiamare arancino (piccolo arancio, cioè) anche il gustoso timballo di riso impanato e fritto. Nelle zone di Palermo invece si sposa l'opzione più tipicamente italiana, con il termine arancia usato per il frutto e, da qui, arancina per indicare l'iconica pietanza. La questione, però, non è così banale come potrebbe sembrare e ha origini più profonde.
Alcune teorie farebbero risalire la preparazione, e il suo nome, al periodo della dominazione araba in Sicilia dal IX al XI secolo. Gli Arabi, infatti, avevano l’abitudine di appallottolare (ma non impanare e friggere, pratica diffusasi successivamente) del riso allo zafferano nel polso della mano, per poi condirlo con carne d’agnello creando una pietanza chiamata naranj (o naranja), data la grande somiglianza con il diffuso frutto arancione. Il paragone con l’arancia, insomma, nasceva quasi spontaneamente.
La tesi araba galleggia però in una sorta di limbo, perché non abbiamo testi o riferimenti scritti di una ricetta ben codificata prima della seconda metà del XIX secolo. Nel 1857 compare per la prima volta, in un dizionario del dialetto siciliano, il termine arancinu inteso come pietanza, ad indicare una vivanda dolce di riso fatta a forma di melarancia. Stando a questa testimonianza, insomma, è lecito credere che questo manicaretto in origine sia stato un dolce, presumibilmente consumato durante la festività di Santa Lucia del 13 dicembre. E, soprattutto, viene adottato il genere maschile, benché dialettale.
Il passaggio a una versione salata avviene nel corso dei successivi 11 anni, in quanto nel 1868 questo stesso vocabolo in un nuovo dizionario (ancora dialettale) rimanda a un crocché di riso particolarmente diffuso al tempo. Ancora, però, non c’è menzione di carne e pomodoro. Bisogna fare un significativo salto in avanti nel tempo per leggere la prima definizione che prevedesse almeno la carne nella preparazione. È lo Zingarelli del 1917, che non solo fa tornare in auge il termine femminile ma, per la prima volta, lo registra in un dizionario non più limitatamente regionale, ma italiano. “Pasticcio di riso e carne tritata, in Sicilia”, questa la spiegazione che appare all’inizio del secolo scorso.
Dal 1942 in poi, però, è arancino che si prende nuovamente la scena, grazie soprattutto alla sua imposizione nel corso degli anni come forma più diffusa nel parlato. Al punto da essere registrato dai dizionari da qui in avanti in questa versione, con il Panzini che lo definisce come “Polpetta fritta, composta di riso, in forma e colore dell’arancia”. Insomma viene italianizzata la forma dialettale originale e il vocabolo è oggi anche adottato dal ministero delle Politiche Agricole e Alimentari, che lo inserisce con questo nome nella lista delle specialità tipiche gastronomiche PAT (Prodotti agroalimentari tradizionali italiani).
Tra l’altro, arancino è anche il termine che Andrea Camilleri utilizza nei romanzi del commissario Montalbano, decisamente ghiotto di questo timballo di riso. La diffusione della parola, insomma, viaggia anche su vie massmediali.
Per approfondire il discorso, e coinvolgere chi questa "rivalità" la vive praticamente tutti i giorni, non potevamo che contattare due chef siciliani, per par condicio esponenti delle differenti scuole di pensiero. Gioacchino Sensale e Rosario Umbriaco sono i due colleghi, nonché amici, che hanno parlato della disputa arancino/a e scherzando (ma forse nemmeno troppo) sulla questione non hanno mancato di stuzzicarsi a distanza sull'asse Palermo-Enna. Sempre, va detto, nel nome della correttezza ma, soprattutto, della sicilianità.
"Si pronuncia al femminile, perché è la storia che lo dice" esordisce Gioacchino Sensale, chef palermitano dell'Hotel Dolcestate di Campofelice di Roccella e membro dell'associazione Ambasciatori del Gusto. "Per cultura l’ho sempre sentita nominare, e quindi chiamata, arancina. Però mi sono anche documentato e l’etimologia femminile deriva dal retaggio arabo. Gli arabi, al tempo della loro dominazione in Sicilia, avevano l’abitudine di usare il riso condito con lo zafferano come supporto per mangiare ragù di agnello. Loro, che erano soliti nominare le vivande riferendosi ai frutti, presero quindi in considerazione l'arancia, come viene comunemente indicato il frutto nel suo genere femminile. Quindi il nome corretto, stando alla storia, dovrebbe essere quello".
La tesi araba quindi è quella avvalorata dallo chef Sensale, che tenta comunque di indicare un'altra differenziazione. Stavolta però di stampo prettamente tecnico e gastronomico. "Se andiamo a analizzare più da vicino i prodotti – dice – troviamo due distinte modalità nel prepararli e presentarli. L'arancina da noi è sferica e ricorda il frutto, nella zona di Catania l’ispirazione è data dall’Etna: infatti i loro timballi sono a punta e il fumo che ne esce dopo il morso ricorda la fumata del vulcano. Tecnicamente ci sono anche delle differenze in fase di realizzazione. Nel catanese il riso viene, per esempio, addizionato al ragù mentre a Palermo è cotto in un brodo profumato allo zafferano e poi all’interno viene inserito il condimento. Io ho sempre sostenuto come siano due prodotti molto simili ma non uguali, quindi il fatto che abbiano due nomi diversi lo giustifico anche così. La bellezza della gastronomia siciliana è anche questa, che una vivanda nel giro di pochi chilometri può cambiare di denominazione e anche di qualche ingrediente. Questo è emozionante perché denota una varietà gastronomica immensa".
Alla fine, però, gli stessi addetti ai lavori come vivono questa sorta di rivalità? Esistono le dispute tra chef? La differenziazione linguistica offre spunti di discussione? "Certo – ci spiega lo chef Sensale – l'importante è che sia una rivalità sana, perché alla fine un prodotto identifica il territorio, le sue tradizioni e culture. Aspetti che bisogna sempre rispettare. La Sicilia è grande, è stata crocevia di dominazioni e popoli, abbiamo un territorio molto variegato e inevitabilmente ogni zona ha il suo modo di fare e le sue peculiarità. La discussione esiste ed esisterà, con il mio amico Rosario (Umbriaco, ndr) scherzo spesso su questo: lui fa dei prodotti buonissimi, quando lo vado a trovare me ne mangio in abbondanza ma alla fine gli faccio notare che sbaglia il loro nome. La stessa cosa la dice lui a me. È una sana diatriba e tale deve essere".
L'importante, comunque, è non snaturare la tradizione e le origini del prodotto. Sia che si parli al maschile che al femminile. Lo chef infatti è sicuro di una cosa: "Oggi esistono tante versioni dell'arancina, io stesso ne ho create alcune come, ad esempio, al pesce o ai frutti di mare. Spero però che, magari per seguire mode e tendenze, non si vengano a creare forzature con prodotti non locali e che non rispecchiano il territorio. Ok alle tante varianti, purché si mantenga il legame con la tradizione. E che il nome sia al femminile (ride, ndr)".
Chiudendo gli occhi e immaginandoci in un futuro lontano 100 anni, come verrà chiamato questo prodotto? "Senza dubbio arancina – spiega lo chef sorridendo ma denotando allo stesso tempo una certa serietà – questo nome ha resistito per tutto questo tempo fino a oggi, volete che non regga per un altro secolo?!".
Rappresentante della quarta generazione di una famiglia di rosticcieri, Rosario Umbriaco è invece colui che si schiera dalla parte del team arancino, senza se e senza ma. Enna, un'ottantina di chilometri da Catania, è la casa del rosticciere che qui ha ereditato dal padre la Tavola Calda Europa (aperta nell'anno di nascita di Rosario) ribattezzadola poi, una volta impugnatene le redini, Umbriaco Tavola Calda e Bottega.
Anche lui è uno dei membri di Ambasciatori del Gusto e ci ha esposto le tesi che avvalorano la variante maschile del timballo, rispondendo a distanza alle parole del suo amico e collega Sensale. A trapelare dalle sue parole è, però, soprattutto l'amore verso la propria terra e l'importanza del legame con i produttori locali, con la filiera corta fondamenta alla base delle sue creazioni. Come prevedibile, sul nome discussioni non ne esistono: "Sono rosticciere da quattro generazioni e, in famiglia, l'ho sempre sentito nominare arancinu o arancino, quindi per me non ci sono dubbi" esordisce così Rosario, che si basa su un presupposto tipicamente tradizionale e famigliare.
La curiosità, però, è che nonostante lui utilizzi il maschile per chiamare questo timballo di riso, la forma è quella sferica tipica del palermitano. Una contaminazione che, tuttavia, non lascia possibilità di replica sul genere masculo del manicaretto. "Sia il nome, la forma, gli ingredienti o i modi di preparazione sono tutti discorsi legati alla cultura e alla tradizione di un luogo. A Palermo usano il ragù, da me si usa lo stracotto di bovino, noi raffreddiamo il riso sul marmo come da tradizione, altri invece usano abbattitori e contenitori d’acciaio vari".
Come spiega Umberto questo dualismo che non sembra avere fine? "Viene vissuto come un derby. Per quello che so io, per quello che ho sempre sentito a casa e per quello che ho studiato il suo nome è maschile. Sentendo parlare noi siciliani, inoltre, si nota come i palermitani abbiano una cadenza tendente alla “a” in tutto, così come i catanesi alla “o”. Il vero siculo però lo dirà sempre in dialetto, arancinu, perché è un nostro prodotto e se dobbiamo essere precisi lo dobbiamo chiamare in siciliano". Maschile o femminile, purché se ne parli però: "È normale che ci sia questa differenziazione e soprattutto ci fa gioco. Il turista se lo chiede e alimenta anche la cultura del prodotto. La diatriba, se posta in modo simpatico e divertente, è sempre positiva. L’aspetto importante che deve accoppiare le due fazioni è la centralità del prodotto del nostro territorio, e le materie prime locali che devono essere utilizzate per prepararlo".
Capitolo varianti: pro o contro alle numerose versioni dell'arancino che rischiano di "oscurare" la ricetta originale? "Per me l’arancino alla carne rimane il top, sempre in cima alle mie preferenze. Nonostante ciò io sono sempre aperto alle varianti, purché siano espressione del territorio in cui sono nato, cresciuto, e questo si può ottenere grazie alla valorizzazione delle eccellenze locali. Per mantenere stretto il legame con la mia terra in fase di cottura del riso utilizzo anche una percentuale di acqua marina siciliana, trattata e filtrata, e non uso sale. Anche questo significa esaltare un prodotto e il territorio che gli è culla, e in questo modo si mantiene viva la tradizione, attraverso il suo rinnovamento".
Una replica all'amico e collega Sensale? "Gioacchino lo ringrazio per i complimenti, il mio arancino però è e rimarrà sempre maschio quindi quando lui mangerà le mie preparazione si deve mettere in testa che sta mangiando un arancino maschio. In caso contrario lo faccio digiunare (ride, ndr)".
Non poteva non essere coinvolta in questa disputa a metà tra lingua e gastronomia l'Accademia della Crusca, massima istituzione linguistica in Italia e tra le più importanti al mondo. Ma qual è la sua posizione nella questione arancino/arancina? Vengono considerate valide entrambe le forme, ma la sentenza non sembra mettere d'accordo tutti i siciliani, ma non solo. In gran parte dei dizionari, anche online, non compare infatti il lemma femminile, ma esclusivamente quello masculo.
Sulla singolar tenzone abbiamo interpellato Stefania Iannizzotto, linguista e collaboratrice dell’Accademia della Crusca nonché siciliana Doc, che ha realizzato anche la scheda dedicata. L'abbiamo interrogata su una questione vissuta in prima persona e che, per lei, ha rappresentato qualcosa di più di una mera distinzione tra generi. "Io sono di Ragusa e da me si usa il femminile – ci rivela – poi quando mi sono trasferita a Catania per studio ho capito che non era il caso che continuassi a chiamarlo così, perché avrei commesso quasi un reato di lesa maestà (ride, ndr). Al tempo non studiavo ancora linguistica ma ho capito quanto fosse importante per queste due zone mantenere la versione abituale, perché incarna il sentimento identitario della città e dei rispettivi territori. Quindi, a mie spese, ho imparato che quando ero a Ragusa dovevo usare arancina, a Catania arancino".
Negli ultimi anni, grazie anche alla comunicazione massmediale, alla televisione e all'esplosione della tendenza dello street food la questione arancino/arancina è arrivata praticamente in tutta Italia. E, di conseguenza, l'intero Paese si è ritrovato di fronte a questa diatriba. Tanti, per cercare di togliersi i propri dubbi, si sono rivolti proprio all'Accademia della Crusca, nella speranza (poveri illusi) di poter dissipare le proprie perplessità. "Una volta entrata come linguista all’Accademia mi sono accorta come la questione fosse tra quelle che destavano maggiore curiosità tra la gente, con tantissime domande che arrivavano quotidianamente sia dal Sud che da altre parti d’Italia. Tutta la penisola si chiedeva quale fosse la risposta corretta, e alla fine mi sono ritrovata a fare la scheda pur sapendo che mi sarei forse inimicata molti miei conterranei".
La storia viene sicuramente in aiuto, ma fino a un certo punto. Anche perché, ci rivela Stefania, il mondo si era rovesciato ancor prima che nascesse la questione. "Le prime testimonianze scritte non ci sono fino alla seconda metà dell’800. La parola non esisteva, ma la si trova a Palermo per la prima volta nel 1857 in un dizionario siciliano e viene messo però a lemma il termine arancinu, quindi utilizzato al maschile. Questa cosa mi ha sorpresa molto, anche se il riferimento era a una ricetta dolce. La prima testimonianza nella parte catanese si ritrova in un dizionario di fine ’800 e compare il termine al femminile: tutto al contrario di oggi insomma". La teoria che rimanda all'utilizzo dell'italiano standard (maschile per l'albero e del femminile per il frutto) è valida ma fino a un certo punto, e con pochi esempi la dottoressa ci spiazza: "È vero che a Palermo è stata adottata la forma italianizzata, più tendente alla norma letteraria, ma questa distinzione non avviene quando parliamo di agrumi: il limone è sia l’albero che il frutto, idem per il mandarino, pompelmo ecc. Quindi perché per arancio dovrebbe cambiare?". Il mistero, insomma, dei infittisce sempre di più e i dubbi, invece di dissolversi, aumentano.
Come si risolve quindi la questione? "Non si risolve – ammette divertita Stefania – le parole della cucina riflettono usi, costumi, tradizioni dei luoghi dove questi cibi nascono, e sono specchio della comunità in cui sono inseriti. La denominazione quindi è sempre quella più vicina alla cultura locale. Si usano, a seconda della zona di appartenenza, termini diversi per indicare la stessa cosa. Dietro la scelta di una parola c’è tutta una costruzione, un’esperienza di vita, che è personale e privata, quindi perché semplificare? La diversità sa essere sinonimo di ricchezza, anche in una lingua. Limitare tutto a un unico modello standard sarebbe riduttivo. Connotare con diverse parole, a seconda della zona di appartenenza, una stessa ricetta è simbolo di varietà linguistica alla quale sarebbe un peccato rinunciare. La disputa continuerà in eterno, ma mi auguro sempre in toni simpatici e di confronto aperto. La gara, speriamo, possa rimanere sempre su chi la fa più buona. Consiglio comunque di usare il nome più appropriato a Palermo o Catania, per avere salva la pelle (ride, ndr)".
Chi si è schierato apertamente, un paio di anni fa, è stato però l'English Oxford Dictionary, che ha inserito il termine arancini (maschile plurale) nell'elenco delle parole straniere dando questa definizione: "Polpette di riso con ripieno salato ricoperto di pangrattato tipicamente servite come antipasto o spuntino". Vince Catania e fine della contesa? Non provate a dirlo ai palermitani. Anche perché, ci permettiamo, la "sentenza" arriva da chi storpia il nome di zucchine in "zucchini". Il beneficio del dubbio insomma lo manteniamo.
A rispolverare l’annosa questione recentemente ci ha pensato la pasticceria Savia (aperta nel 1897) con la sua ultima mossa. Ci troviamo a Catania, patria dell’arancino rigorosamente masculo, ma in questo locale da sempre il prodotto è stato chiamato con la sua denominazione femminile. Una sorta di sacrilegio, un reato di lesa maestà, chiamare alle pendici dell’Etna un prodotto così caratteristico e iconico nella sua variante palermitana. E i locali non l'hanno certo presa bene.
I proprietari della pasticceria, dopo anni di battaglie linguistiche, hanno cercato di tagliare la testa al toro, rinunciando alla disputa tra generi (e all’arancina qui sempre adottata) e limitandosi a utilizzare la forma dialettale arancinu. Anche in questo caso non tutti sembrano essere d’accordo, e condividere questa scelta per la gente del posto sembra più difficile di un’abbuffata a base di questo prodotto tipico siciliano.
Inutile, e forse poco rispettoso di una tradizione centenaria, schierarsi a favore di una o dell’altra fazione. Chiamatela come volete insomma ma l’importante è che sia buono/a e che rispetti la storia del territorio di appartenenza. A mettere d’accordo tutti, alla fine, è come sempre il gusto. Con la forma tonda o a punta, con il nome al maschile o femminile, l'importante è che sia sempre la fine del mondo.