Un viaggio alla scoperta del mondo degli allevamenti intensivi: cosa sono, come sono organizzati e quali sono le conseguenze di questo modello ormai tanto criticato.
Da qualche anno, grazie a una maturata una rinnovata coscienza ambientalista, abbiamo iniziato a chiederci cosa mangiamo davvero e qual è l'impatto della nostra alimentazione sul pianeta. Uno degli argomenti più difficili da trattare in questo settore è quello degli allevamenti intensivi che, secondo un rapporto di FAIRR Iniziative, generano il 44% delle emissioni globali di metano e sono in larga parte responsabili del riscaldamento globale. Ma cosa sono esattamente gli allevamenti intensivi, quanto inquinano e perché sarebbe meglio evitarli?
L'allevamento intensivo è una particolare forma di allevamento applicata fin dai primi del ‘900 e, in Italia in particolare, da dopo la Seconda guerra mondiale: come gli altri tipi di allevamento prevede la custodia, la crescita e la riproduzione degli animali, ma questa può essere svolta in ambienti confinati.
Gli allevamenti intensivi sono organizzati per produrre alimenti anche senza la quantità necessaria di terreno che garantisca l'alimentazione per i capi allevati, lo smaltimento delle loro feci e la percentuale tra superficie coperta e scoperta che contraddistingue gli insediamenti agricoli. L' "opposto" dell'allevamento intensivo, per così dire, è l'allevamento estensivo: un sistema in cui gli animali godono invece di assoluta libertà, svolgendo tutte le loro attività all'aria aperta e decidendo in autonomia quando e se ripararsi nella eventuale stalla.
In sintesi, l'allevamento intensivo avviene in un ambiente circoscritto e chiuso (una stalla chiusa o aperta, recinti, capannoni), con l’applicazione di un'alimentazione controllata e a elevato valore nutritivo con l'obiettivo di massimizzare la produzione e attuare un maggior controllo sulla vita dell'animale.
Gli allevamenti intensivi nascono e si caratterizzano innanzitutto per un’impostazione industriale: l’obiettivo, come detto, è quello di massimizzare le quantità di alimenti prodotti, riducendo al minimo i costi e gli spazi necessari agli allevamenti tradizionali. Un modello che sì è diffuso nel XX secolo allo scopo di soddisfare la crescente richiesta di prodotti di origine animale, in particolare carne, uova e latticini, che ha abbattuto costi e tempi di produzione, arrivando a soddisfare le esigenze create dal consumo di massa.
Con la diffusione del benessere nel secondo dopo guerra, la carne, prima appannaggio delle classi più abbienti, diventa appannaggio di tutte le fasce sociali, che la consumano in misura sempre maggiore. Allo stesso tempo, i nuovi strumenti zootecnici e veterinari permettono di rendere ancora più efficiente il nuovo modello, rendendolo uno degli ingranaggi basilari della grande distribuzione organizzata. Senza l'allevamento intensivo, la Gdo non sarebbe mai diventata così capillare come oggi.
Naturalmente, lungo il corso del secolo, il modello si è evoluto: prima gli unici fattori considerati erano costi e produzione su scala industriale, mentre man mano si sono aggiunti elementi come l'igiene del processo produttivo e la qualità dei prodotti finali, la tutela degli animali e l'impatto ambientale. Di conseguenza, gli allevamenti intensivi presentano caratteristiche anche molto diverse a seconda del territorio nazionale in cui sono ubicati.
Oggi, per quantità prodotte, gli allevamenti intensivi costituiscono la prima fonte di approvvigionamento di cibi di origine animale. Negli ultimi anni, però, questo metodo produttivo è stato sempre più criticato, per una serie di conseguenze importanti che comporta, non solo in termini di salute animale ma anche rispetto alla sua sostenibilità e alle conseguenze che comporta.
L'allevamento si può utilizzare con tanti animali diversi: non solo bovini, suini e avicoli, ma anche bachi da seta, equini, struzzi, ostriche e così via. Esistono diverse tipologie di allevamento, soprattutto per quanto riguarda i polli (pollicoltura), i bovini e i maiali. In Europa troviamo:
Il primo caso è quello dell'allevamento intensivo: gli animali vivono in spazi specifici (calcolati sulla base delle norme europee), non hanno accesso all'esterno, si cibano di mangimi e vengono controllati dal punto di vista salutistico in ogni momento della loro vita. Questo tipo di allevamento ha avuto anche dei risvolti estremi, soprattutto nel corso degli anni passati, quando i controlli erano molto blandi: animali stipati in spazi ristretti, che si ammalano facilmente e vengono curati con dosi massicce di antibiotici (da cui deriva un certo tipo di resistenza moderna ai farmaci) e che producono alimenti dalle scarse qualità nutritive.
Il secondo tipo di allevamento è quello in cui gli animali hanno una struttura riparata, ma vengono lasciati al pascolo in determinate zone e in momenti precisi dell'anno: per le vacche, ad esempio, è il periodo dell’asciutta, il momento i cui non producono latte. L'ultimo modello è quello dell'allevamento estensivo, che va dal semi brado al brado: condizioni di vita molto simili a quelle naturali, con gli animali in stato di libertà, senza l’imposizione di un confinamento in spazi rinchiusi né limiti al movimento. Naturalmente, questo non vuol dire che non ci sia la presenza umana: non si tratta infatti di animali allo stato selvaggio, ma di bestie controllate dal punto di vista sanitario e sociale.
L'Europa è intervenuta più volte sul tema, producendo norme che riguardano sia gli allevamenti intensivi sia gli altri tipi di allevamenti. La Decisione 78/923/CEE del 1978, modificata nel 1992 con la 92/583/CEE, è stata la prima a normare la protezione degli animali negli allevamenti a livello comunitario. Nel 1998 la Direttiva 98/58/CE ha introdotto principi significativi per il benessere dei capi d’allevamento, indipendentemente dalla specie e dal tipo di produzione ai quali sono destinati. Negli anni successivi, sono state approvate ulteriori direttive specifiche per le galline ovaiole (1999/74/CE), per i polli da carne (2007/43/CE), per i vitelli (2008/119/CE) e per i suini (2008/120/CE).
In sintesi, l'Europa ha normato:
I gas a effetto serra, uno dei principali motivi del surriscaldamento globale, non sono esclusiva responsabilità dell'uso di fonti fossili: a differenza di quanto si credeva in passato, una buona parte di questi gas sono emessi dagli allevamenti intensivi di animali. La presenza di un elevato numero di animali in uno spazio ristretto, provoca infatti:
Le ricerche negli ultimi abbi si sono moltiplicate, grazie alla rinnovata sensibilità di associazioni e consumatori in merito ai temi ambientali. Focalizziamoci sul nostro Paese: secondo l’Ispra, gli allevamenti intensivi producono il 75% delle emissioni di ammoniaca in Italia, in pratica sono la seconda fonte di polveri sottili. Ogni tipo di allevamento inquina in modo diverso: le emissioni di ammoniaca, ad esempio per il 30,2% provengono dall’allevamento delle vacche da latte, per il 14% dai suini e per il 12,1% dagli avicoli (il restante 32,1% è prodotto da altri bovini allevati).
In generale, gli allevamenti causano il 79% delle emissioni di gas serra nel settore dell’agricoltura, di cui il 47% proviene dalla "fermentazione enterica" – ovvero il processo digestivo dei micorganismi con si arriva produrre gas di scarto – il 18,8% dalla gestione delle deiezioni (le feci) e il 27,6% dai suoli agricoli per le coltivazioni.
Come abbiamo detto le conseguenze negative degli allevamenti intensivi si riflettono su più "attori": gli animali in primis, perché costretti in condizioni di vita indegne; l'ambiente, perché gli allevamenti creano inquinamento e impoverimento delle risorse naturali; sulle persone, perché vengono danneggiate le popolazioni che vivono vicino a questo tipo di allevamenti, in cui si rileva un deciso calo delle condizioni di vita, ma anche i consumatori.
In particolare, come vengono danneggiati i consumatori? Al di là del problema della diffusione delle malattie dovute ad ambienti insalubri, tema che ci ha toccato da vicino negli ultimi anni, sono diversi gli studi che dimostrano come consumare prodotti da allevamenti intensivi crei problemi alla salute umana. Il cibo prodotto con l'allevamento intensivo, infatti, posside scarse capacità nutritive: la crescita accelerata e i metodi usati per produrre carne da allevamento intensivo fanno sì che sugli scaffali dei nostri negozi arrivino prodotti che hanno perso le loro proprietà originarie e che risultano scarsamente nutritivi.
Inoltre, può provocare resistenza agli antibiotici, ovvero quel fenomeno per cui i farmaci sono poco efficaci o non lo sono per niente. La maggior parte degli antibiotici ingeriti però proviene proprio dagli allevamenti intensivi: solo in Italia infatti il 70% dei prodotti alimentari della grande distribuzione è stato trattato con questi farmaci.
In sintesi, i motivi per cui dovremmo evitare di comprare prodotti da allevamenti intensivi sono: