A Venezia si chiama scartosso il tipico cartoccio di pesce fritto. Uno cibo da strada prima ancora che scoppiasse la moda dello street food: un fritto misto di ciò che il mare di fronte alla Laguna può offrire. La storia dello scartosso risalirebbe al 1600.
Scartosso, scartoso, al più il sostantivo italianizzato cartoccio, purché non lo si chiami cuoppo, termine più diffuso a indicare la tipica frittura di pesce realizzata sulle coste della Campania e di cui i napoletani vanno particolarmente fieri e orgogliosi.
Lo scartosso è veneziano e trae il nome, appunto, dal cartoccio: il cono di carta paglia utilizzato per assorbire la frittura e riempito con gustosi pesci di piccola taglia e crostacei fritti. Calamari, seppie, gamberi, sarde, moeche (o moleche), vale a dire i granchi pescati durante il periodo della muta, quando perdono il carapace in attesa della formazione di quello nuovo. Proprio in questo lasso di tempo, sprovvisti di corazza e quindi più teneri e molli, particolarmente adatti al consumo, vengono catturati dagli abili pescatori della Laguna, per essere poi portati sulla terraferma: destinati a essere immolati sull’altare della frittura di mare.
Lo scartosso veneziano rappresenta un cibo da strada ante litteram, diffuso e consumato molto prima che esplodesse la tendenza dello street food. Bisogna infatti risalire al 1700 (probabilmente anche al 1600) per imbatterci nelle prime forme dello scartosso. In appositi locali, piccoli quanto modesti, chiamati fritolin (tanto tipici quanto i bacari) veniva fritto il pesce pescato in giornata e invenduto nei mercati, in particolar modo le varietà di piccole dimensioni che non potevano essere cucinate in altre maniere. Pesciolini e crostacei venivano passati in farina non abbondante, poi setacciati e immersi in un pentolone di olio bollente. Il tutto, bello caldo, era poi raccolto in un cartoccio di carta paglia. In dialetto locale, appunto, scartosso.
Nello specifico, comunque, da cosa è composto lo scartosso de pesse frito? Piccole specie come lattarini, crostacei come le già citate moeche e gamberi, moscardini e calamaretti tra i molluschi. Il tutto, un tempo come oggi, per la maggior parte proveniente dal Mercato di Rialto. Specialmente nei primi tempi molto dipendeva da ciò che rimaneva invenduto tra i banchi dei pescatori del mercato stesso, recuperato e rivalorizzato grazie a un po' di farina e del semplice olio bollente.
All’interno del caratteristico cartoccio potrebbe sbucare, tra un gambero e una moeca, anche qualche pezzo di verdura (soprattutto carciofi) e, perché no, dietro a qualche moscardino o accanto a un lattarino potrebbero trovarsi alcuni ritagli di polenta fritta o arrostita. Lo scartosso non è di certo una preparazione per rimanere leggeri, bensì per assaporare agilmente, lungo i calli veneziani e a prezzo contenuto ciò che offre la gastronomia lagunare. Il tutto facendo, idealmente, un salto indietro nel tempo di almeno 3 secoli, a quando commercianti, marinari, semplici passanti o locali si recavano presso i fritolin per un veloce fritto di mare.
Uno dei segreti di questa preparazione? La panatura senza dubbio, già descritta nel 1928 da Elio Zorzi, autore di un trattato sulla cucina veneziana. “Naturalmente, in fatto di frittura, la specialità veneziana consiste nell’arte di friggere – recitava lo storico e giornalista originario della Laguna – ed in quest’arte non v’ha al mondo chi superi i frittolini, o friggipesce".
"Essi usano friggere il pesce in abbondantissimo olio dopo averlo molto parcamente infarinato; ma quel che più conta per il successo delle fritture è l’occhio dell’artista”. Panatura insomma delicata, poca farina ad avvolgere tutto ciò che da lì a poco è destinato a finire nell’olio bollente. Quel quid in più, poi, nell'abilità tecnica e nell'esperienza di chi realizza lo scartosso.